La rosa non ci ama
Carlo Gesualdo vs Maria D’Avalos
di ROBERTO RUSSO
Nella notte compresa fra il 16 ed il 17 ottobre del 1590, in Piazza San Domenico, a Napoli, Carlo Gesualdo, Principe di Venosa, uccise sua moglie Maria D’Avalos e l’amante di lei, il Duca D’Andria, Fabrizio Carafa. Questo racconta la fredda cronaca. Ma il sanguinoso evento, anche a distanza di più di 4 secoli, evidenzia delle particolarità, sia dal punto di vista giudiziario e di costume che da quello umano, tali da renderlo perennemente attuale.
Prima di tutto, osserviamo i soggetti coinvolti. Si tratta di personaggi nobili, ricchi e perfettamente inseriti nel bel mondo di epoca vicereale a Napoli. Tutti andranno incontro ad un esito giudiziario distorto a causa del loro stesso status e del ruolo ricoperto nella società dell’epoca. Fra di loro spicca l’enigmatica e contraddittoria figura di Carlo Gesualdo.
Musicista di chiarissima fama è riconosciuto ancora oggi quale uno dei pochissimi che seppero a tal punto valicare i tempi, da essere considerati Padri della musica del ‘900. Gesualdo, con le dolorose e vitali disarmonie di diesis e bemolle, alla ricerca di suoni sempre nuovi, diede vita al suono/colore delle alterazioni cromatiche. L’omaggio, quasi 4 secoli dopo di Stravinsky con il “Monumentum pro Gesualdo da Venosa” è il riconoscimento al sorprendente talento anticipatorio del Principe espresso dalle geniali dissonanze armoniche contenute in madrigali, mottetti e responsori.
Eppure, questo Genio Assoluto, fu inevitabilmente figlio e vittima dei tempi e si rese protagonista di uno fra i delitti più efferati, cruenti e premeditati che la Storia giudiziaria ricordi. L’attualità di quell’episodio si riscontra proprio in questo aspetto: ognuno dei tre protagonisti viene condizionato, guidato, armato, ucciso da quanto la Pubblica Opinione chiede loro proprio in ragione della Posizione sociale, dell’Immagine e del proprio Prestigio. In questo senso, come recita il titolo, “La Rosa non ci ama”
Il significato simbolico ed esoterico della Rosa è ambivalente perché, se da un lato è il fiore prediletto dalle fate, d’altro canto, secondo la superstizione popolare molto diffusa nel Medioevo, era il fiore che le streghe preferivano perché idoneo a provocare il male a causa della presenza delle spine. “La Rosa” è, quindi, quanto ci attrae e ci affascina ma che respinge il nostro essere più profondo. “La Rosa” è il falso amore in tutte le sue insidiose forme: dal possesso, alla manipolazione, alla violenza, fino a quel falso amore collettivo che si sostanzia nel Successo o nella Celebrità e che la Gente tributa non per ciò che si è, ma per quanto si “deve essere” ai suoi stessi occhi. “La Rosa” è la considerazione della Gente, la sua ammirazione per personaggi che devono essere sempre al livello dell’Immagine che viene loro attribuita.
I tre protagonisti del delitto, assassino e assassinati, sono, a loro modo, tutte vittime delle Convenzioni e della Voce della Gente. Incatenati, quindi, al proprio censo e al proprio ruolo. Le storie celebri hanno spesso, quale ornamento, delle leggende. Si dice, infatti, che ai nostri giorni, durante alcune notti, nei pressi dei luoghi del delitto, si aggiri il tormentato fantasma di Maria D’Avalos e che i suoi strazianti lamenti abbiano il potere di scuotere le tenebre ed atterrire coloro che hanno la ventura di passare per Piazza San Domenico. Sono le urla di chi cerca ancora di dare un senso, una ragione, alla propria tragica fine. “La Rosa non ci ama” parte proprio da questa leggenda. Due frequentatori della notte, una barbona alle prese con un gioco rompicapo, ed un enigmatico nottambulo si ritrovano, in una delle nostre notti, proprio in quella piazza deserta. La donna, scostante e ruvida, si arrovella con un Cubo di Rubik, presumibilmente rinvenuto in un cassonetto della spazzatura.
Il nottambulo, invece, provocatorio, ridicolizza quei tentativi messi in opera dalla donna per ricomporre, l’unita cromatica, iniziale, del Cubo. I due si sveleranno nei ruoli di Carlo Gesualdo e di Maria D’Avalos e, attraverso la faticosa ricomposizione cromatica del Cubo di Rubik, metafora della vita e della loro stessa vicenda, ricostruiranno le fasi dell’evento per trovare un Senso, una Consapevolezza che possa loro donare la Pace. Le fasi della colpa, della rabbia, delle accuse e della vergogna, li condurranno, ad una forma di catarsi fino alla consapevolezza di una nuova unità che li potrà liberare.
Per la scrittura e per l’elaborazione del testo, evitando accuratamente gli elementi leggendari e morbosi della vicenda, ci si è basati sugli atti del procedimento preliminare svolto dai giudici della Vicaria il giorno dopo il delitto attraverso gli interrogatori dei testimoni Silvia Albana e Pietro Maliziale, detto Bardotto.
Gli originali di questi verbali, insieme alla dettagliata cronaca dell’accesso dei magistrati e del mastro d’atti sul luogo del delitto, andarono distrutti in un incendio nell’800 ma si conservarono in copia.
Alcuni elementi chiarificatori ed inediti della vicenda, umana e giudiziaria, sono stati tratti dalle cronache dei fratelli Corona, accreditati cronisti del tempo.